La grammatica a volte fa brutti scherzi. Siamo abituati a pensare al vino come a qualcosa al maschile, “il” Barolo, “il” Brunello, “il” Taurasi, ma esistono vitigni e vini declinati al femminile e chissà che questo non coincida con le loro caratteristiche…
Uva è un sostantivo femminile. Su questo non c’è dubbio. Come anche vite, barbatella, vigna. Vitigno invece no, e tantissime varietà di uva, non lo sono, come se a un certo punto, quando si cominciano a usare terminologie più tecniche e più specifiche, tutto diventa declinato al maschile. Un peccato, insomma. Però ci sono eccezioni, eccome.
Ricordo che Luigi Veronelli diceva sempre che “la” Barbera era un vino femmina. E del resto in Langa, in Monferrato, il suo nome popolare è femminile. Non “il” Barbera, ma “la” Barbera. Con i suoi caratteri anche molto diversi da zona a zona. Più austera e decisa in Langa, più avvolgente nell’Astigiano, talvolta rustica e frizzante tra il Monferrato, l’Oltrepò e i Colli Piacentini. Ma sempre femmina, sempre “la” Barbera. E sempre accogliente e sorridente, qualche volta un po’ decisa e aspra, ma va bene così.
In Oltrepò Pavese e sui Colli Piacentini c’è anche “la” Bonarda, poi “la” Croatina e l’Uva rara, dalle quali derivano gioiosi e spesso frizzanti vini rossi, che si abbinano alla perfezione con i salumi di quelle zone. È femminile anche “la” Schiava. Niente a che vedere con la schiavitù, per carità. In tedesco è Vernatsch, che deriva probabilmente dal latino “vernaculum” e vuol dire “del posto”. In Alto Adige/Sudtirol la chiamano in entrambi i modi e dà vita a rossi leggeri e facili da bere, piacevoli ed eclettici negli abbinamenti. Poi è alla base di un rosso di grande tradizione, il Santa Maddalena, che si fa sulle colline ad est di Bolzano, coperte da vigneti ripidi e bellissimi, che è femminile due volte, per l’uva e per la Santa alla quale è dedicato.
Ma di Vernacce, tutte donne o ragazze “vinose”, ce ne sono tante altre, ognuna diversa dall’altra, perché il termine indica il tipo di uva tipica di quel determinato luogo, quindi le varie tipologie non hanno nulla in comune una con l’altra. È rossa a Serrapetrona nelle Marche, dorata e liquorosa ad Oristano in Sardegna, bianca e fragrante a San Gimignano in Toscana. Ognuna affascinate nel suo genere, proprio come lo sono le donne agli occhi di noi maschietti, o almeno voglio sperarlo.
E continuiamo alla scoperta di quei vitigni che con il loro nome evocano la femminilità, nelle parole e anche nelle tipologie dei vini. Il Prosecco è maschile, ad esempio, ma l’uva che ne è all’origine, proprio come fosse una mamma, è “la” Glera. Ormai si produce da Trieste in giù, per tutto il Friuli, il Veneto, fino a raggiungere Valdobbiadene ed Asolo. E questo vuol dire un mare di bollicine, femmine anche loro, con le quali un sacco di gente festeggia in mezzo mondo. Con vini fragranti e leggeri, talvolta semplici, ma molto popolari e facili da capire. I Prosecco sono così nella maggior parte dei casi, anche se quelli delle Rive di Valdobbiadene, di Cartizze e di Asolo, che provengono spesso da vigne stupende, raggiungono livelli di qualità davvero notevoli.
In Friuli, sul Collio Goriziano e sui Colli Orientali in prevalenza, si coltiva “la” Ribolla Gialla, un’uva antica e tradizionale, che può prendere diverse strade perché può essere interpretata in molti modi. C’è chi ne fa un bianco fermo e profumato, salino, fresco. Poi chi la spumantizza, ricavandone fragranti bollicine, e persino chi la vinifica a contatto con le bucce, “in rosso”, per farne un orange wine, magari utilizzando anfore di terracotta per l’affinamento. In alcuni casi lo Schioppettino, dal nome maschile, diventa Ribolla Nera, come una sorta di transgender in chiave vinosa. Accade anche questo.
Come accade che “la” Malvasia, che deriva dal Peloponneso con grande probabilità, in Italia prenda vie ed espressioni e varietà imprevedibili. C’è quella di Candia, anche “aromatica”, alla base di vini piacentini e parmensi, ma presenta anche sui Castelli Romani. Poi c’è quella Bianca e Lunga, prevalentemente in Toscana, che viene usata anche per fare il Vin Santo. Ancora, la Malvasia Istriana, in Collio, sul Carso anche in altre parti del Friuli. La Malvasia delle Lipari è antichissima, e se ne ricava un meraviglioso bianco dolce. E quella rossa, a Castelnuovo Don Bosco, in Piemonte, amabile, fragrante e frizzante. Un universo di vitigni, tutti con un nome femminile e tutti con caratteristiche uniche e anche diversissime fra di loro.
Nel sud di vitigni al femminile ce ne sono meno. Alcuni però sono famosi e diffusi. Forse il più noto è “la” Falanghina, che si produce in Campania e in Molise, ma che ha delle espressioni e dei biotipi anche molto diversi fra loro. C’è quella dei Campi Flegrei e c’è quella del Sannio Beneventano, e gli esperti di ampelografia sostengono che sono forse lontani parenti, me che le differenze sono molto profonde. Anche i vini che ne derivano sono diversissimi. Note affumicate, leggermente sulfuree sui Campi Flegrei, più fruttate e agrumate nel Sannio. In entrambi i casi vini piacevolissimi, salini, freschi, facili da bere. Quasi delicati, e in questo decisamente femminili al di là del nome che portano.
Ma non finisce qui. Tra Marche, Abruzzo e Lazio c’è “la” Passerina, che dà origine in genere a bianchi sapidi e piacevoli, in genere fermi, talvolta spumantizzati, nel Frusinate anche orange in alcuni casi.
A Verona c’è poi “la” Garganega, dalla quale provengono tutti i vini di Soave, compreso il Recioto bianco e dolce. Sempre da quelle parti posso concludere con un grandissimo vitigno rosso al femminile, che insieme con altre varietà, sempre al femminile, dà origine ai vini della Valpolicella, ancora un nome femminile. È “la” Corvina, con le sue sorelle Rondinella, Oseleta, Negrara e Molinara. Da loro derivano l’Amarone, il Recioto dolce, il Bardolino e il Valpolicella.
Ne avrò dimenticati molte di sicuro, Coda di Volpe, Cococciola, Ughetta, sono le prime che mi vengono in mente. E ce ne saranno anche molte altre di uve femminili. Con una costante, però. Quasi sempre i vini che derivano da loro sono più comprensibili, più composti, come se il genere non fosse solo una casualità linguistica o grammaticale, ma alludesse a qualcosa di più profondo. Chissà.