Definire un vino emozionante significa far rientrare il giudizio totalmente nel campo soggettivo e pretendere che ciò che emoziona me possa emozionare anche altri.
Cos’è un’emozione? Secondo Wikipedia, ma anche secondo molte enciclopedie diverse, si tratta di stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche che coinvolgono varie esperienze soggettive. Soggettive, appunto. Perché ciò che è emozionante per me potrebbe, anzi, è quasi scontato, che non sia emozionante per altri. L’amore per una persona, la fede religiosa, un brano musicale, possono essere emozioni non condivise, insomma.
Perciò quando si parla di “vini emozionanti” mi sembra che si voglia fare soprattutto retorica e si provi a cercare una condivisione su ciò che è per sua stessa natura soggettivo e non così facilmente condivisibile. A me, per esempio, e trascurando temi ben più importanti, mi “emozionano”, o meno retoricamente, mi interessano, vini per nulla “emozionanti” per altre persone. Nulla di male o di sbagliato, per carità.
Il problema è che la presunta “emozionabilità” che dovrebbe avere un vino poi diventa un discrimine qualitativo, e qui francamente ci sarebbe qualcosa da obiettare. Perché se ci si “emoziona” su una sensazione organolettica forse significa che non c’è molto da emozionarsi per altro. Oppure c’è la voglia di dire che se un vino è “emozionante” non valgono più corsi, tecnica, enologia, viticoltura, ma solo il fatto che qualche aspetto legato a una propria esperienza sia determinante. Mi “emoziona”, e quindi è buono, per me, per i miei followers, e per tutti coloro che vogliono sentirsi al pari di me.
Qualcuno ultimamente mi ha definito “demodé”, e avendo 68 anni posso capirne le ragioni, però mi emoziono ancora, magari non per un vino che “emoziona” qualche cosiddetto influencer ma per cose che fanno parte di racconti, persone e tradizioni, e anche tecnica enologica. Poi per i miei affetti personali ma questo fa parte delle cose private che mi permetto di condividere solo fino a un certo punto.