Le valutazioni dei vini italiani da parte dei maggiori critici americani divergono in modo sorprendente. Viene da pensare che si tratti di una sorta di marketing del punteggio, cioè che tengano conto di principi che regolano concorrenza e posizionamento editoriale.
I critici enologici americani che si occupano d’Italia sono certamente persone competenti e di grande esperienza. Ve ne nomino cinque in particolare: James Suckling, Monica Larner, Antonio Galloni, Alison Napjus e Kerin O’Keefe.
Il primo viene dalla scuola di Wine Spectator, che ha lasciato diversi anni fa dopo essere stato il più giovane della squadra dei fondatori. Vive fra l’Estremo Oriente, gli Usa e l’Italia. La seconda è colei che ha preso in mano il lavoro di Robert Parker dopo avere collaborato per anni con Wine Enthusiast e vive tra Roma e la California, con qualche apparizione anche in Francia. Galloni ha lavorato a lungo con Parker che ha poi lasciato per fondare Vinous. Napjus è “Senior Editor and Tasting Director” di Wine Spectator, con la responsabilità per l’Italia e vive negli Usa. O’Keefe è stata per molto tempo la responsabile di Wine Enthusiast, rivista che ha lasciato di recente per mettersi in proprio. Tutti molto esperti, ottimi assaggiatori e di sicuro formidabili professionisti.
Ogni tanto però le loro valutazioni divergono in modo sorprendente. Quasi mai concordano sui punteggi dei maggiori vini, così accade che, se uno di loro valuta molto positivamente quel Brunello o quel Barolo o quell’Amarone, per gli altri ce ne sono sempre alcuni più buoni. Quasi a dire che io sono diverso e il mio modo di assaggiare è unico e irripetibile.
Certo, questo accade anche per altre pubblicazioni, quelle italiane o francesi, ad esempio. Ma con una differenza fondamentale. Mentre loro lavorano prevalentemente da soli o con pochissimi collaboratori, le pubblicazioni italiane e anche francesi sono quasi sempre il frutto di lavori di squadra. Loro sono “uomini soli al comando”, insomma, e i nostri responsabili di guide e altro, tutt’al più i capitani di una squadra.
Allora mi chiedo se sono davvero il frutto di opinioni differenti basate sugli assaggi i loro pareri divergenti. Oppure se non si tratti di una specie di concorrenza professionale, una sorta di “marketing della valutazione”, detto con tutto il rispetto del caso, ovviamente. Sarebbe come dire che, ad esempio, questo o quell’altro wine critic non debbano andare d’accordo più che altro per problemi di concorrenza e di posizionamento editoriale. Nulla di male. Se fosse così, basterebbe saperlo, però.