Un personaggio importante, una figura di spicco per la viticoltura friulana, pioniere del vino bianco moderno della regione, che in uno dei primi incontri con Daniele Cernilli ha mostrato tutto il suo carattere.
Oggi se lo ricordano solo quelli dai cinquanta in su, ma a partire dagli anni Settanta, e per almeno tre decenni, era lui la grande figura dei vini friulani. Tra i primissimi a vinificare “in bianco”, già dal 1970 aveva prodotto dei vini eccezionali, dal Pinot Bianco alla Malvasia, persino al Riesling Renano. Grande amico di Veronelli, che quasi ne aveva soggezione, ed è tutto dire, e uomo dal carattere deciso, che non le mandava certo a dire.
Me ne accorsi molto bene nella primavera del 1988, quando affrontai per la prima volta, in modo complessivo, l’assaggio e la valutazione dei vini del Friuli per la seconda edizione della guida Vini d’Italia del Gambero Rosso. Avevo poco più di trent’anni all’epoca, ed ero dovuto andare lì perché l’anno precedente, per la prima edizione, la regione era stata affidata ad un giovane collaboratore, oggi assai noto, ma del quale preferisco tacere il nome, che ne aveva combinate di tutti i colori. Spinto dal sacro fuoco della passione aveva in particolare deciso di ribaltare completamente i giudizi di valore che fino a quell’epoca erano stati dati dai vari Veronelli, Benini e Piccinardi, che in quegli anni dettavano legge.
Non che la cosa fosse del tutto sbagliata, però ci fu un impeto giovanilistico e soprattutto una netta preferenza per produttori giovani ed alle prime armi, come all’epoca Gallo, Jermann e Gravner, cosa che aveva creato non pochi malumori. Per Mario Schiopetto la parola “malumore” era un understatement. Così quando lo chiamai per prendere un appuntamento e visitare l’azienda, dandogli come sempre rigorosamente e rispettosamente del “lei”, mi sentii rispondere più o meno così: “Ah, lei è del Gambero Rosso… Aspettavo proprio una sua telefonata. L’anno scorso avete fatto una cosa pessima, venga pure che ho qualcosa da dirle”. Non era proprio l’accoglienza più cordiale del mondo, ma pensai che vedendomi, avrebbe cambiato i toni. Non mi aveva riconosciuto al telefono ma data la lunga frequentazione con Veronelli mi aveva incontrato tante volte.
Così partii da Percoto, dove Giannola Nonino mi aveva ospitato nella loro foresteria (e dove avrei conosciuto di lì a poco Leonardo Sciascia, cosa per la quale le sono ancora grato) e mi diressi con la mia Fiat Uno color carta da zucchero verso Capriva del Friuli, sede della cantina di Mario Schiopetto. Lui già non stava benissimo. Camminava con il bastone per via di una malattia con la quale ha combattuto per molti anni. L’ingresso allora era una porta a vetri e Mario mi aspettava seduto, rivolto verso l’entrata, con il bastone appoggiato alla poltrona.
Arrivai. Aprii la porta e salutai. “Adesso stia lì perché prima dobbiamo parlare”. Mi lasciò in piedi, senza neanche farmi togliere il soprabito per quasi un’ora, e raramente me ne sono sentite dire così tante come quella volta. “Voi non vi rendete conto che avete a che fare con il pane della gente. Di me potete scrivere quello che volete, ho spalle larghe e non temo il giudizio di nessuno. Ma la scheda che è stata scritta sulla Cantina Produttori di Cormons è una vergogna. Quella dà da vivere a tante famiglie qui, dovete pesarle le parole, altrimenti create danni a un sacco di gente e senza motivo, oltretutto”.
Queste parole me le sono stampate in testa a caratteri di fuoco. Aveva ragione e non potevo controbattere nulla. Alla fine, forse mosso a pietà anche dalla mia reazione pressoché inesistente, mi disse: “Per oggi può bastare. Ora si sieda ed assaggiamo i vini”. E mi versò un bicchiere di Tocai (allora si chiamava così) dell’87. Non era la migliore versione di Tocai, quello dell’86 era di certo migliore, ma a me sembrò fantastico. Verdolino, delicato al naso, con i classici profumi di mandorla fresca, sapido, equilibrato. Non lo degustai, lo bevvi. E quando alzai lo sguardo vidi Mario che sorrideva. Mi aveva, “ci” aveva perdonato, e aveva capito tutto, anche la foga giovanile.
Però quelle bacchettate che allora mi fecero vergognare, poi mi sono servite ad imparare che il lavoro degli altri va comunque rispettato, soprattutto se è fatto con impegno e buona fede. Chi si mette in cattedra a giudicare deve avere almeno l’umiltà di capire questa lezione fondamentale. In questo io ho avuto un grande insegnante.