Il vino parla da sé e va assaporato e giudicato senza cercare giustificazioni “naturalistiche” ai suoi eventuali difetti. Solo se è buono la sua provenienza da una viticoltura bio o sostenibile costituisce un plus.
Riprendo, ampliandolo, un vecchio editoriale del 2017 che mi sembra veramente molto attuale.
Durante una delle ultime visite in Cote d’Or, il vero Eldorado della Borgogna, uno fra i più famosi vigneron della zona, a una mia precisa richiesta di carattere tecnico su un suo vino, mi ha risposto così: “Tu assaggialo, poi se ti piace ti racconto come l’ho fatto”. Un atteggiamento molto ragionevole e anche molto corretto e intelligente, che privilegia il valore organolettico dei vini prima di quello “ideologico”. Il tutto in perfetta assonanza con il canone del Buono, Pulito e Giusto sostenuto anni fa da Carlo Petrini, “lider maximo” di Slow Food, in un suo famoso libro che aveva lo stesso titolo. Il “buono” viene prima, insomma, e solo dopo si può parlare di altro.
Molto spesso però qualcuno si dimentica, o fa finta di dimenticarsi, di questo elementare principio e si sentono discorsi che francamente suonano davvero molto strani. “Sa, è biologico e siamo in conversione biodinamica”, detto prima addirittura di versare il vino nel bicchiere, oppure dichiarato dal rappresentante di turno per facilitare la vendita. Sottintendendo che, se è frutto di viticoltura “bio” dev’essere comunque buono e migliore di altri. Oppure “se questo vino biodinamico non ti piace è solo perché sei troppo abituato a bere vini standardizzati e non sai riconoscere la sua qualità”, che sarebbe come dire che, se un libro ha contenuti in linea con le mie idee, allora può essere anche scritto in modo sgrammaticato e quasi incomprensibile da un autore semianalfabeta.
Lo stesso Petrini potrebbe rispondere che questo è come mettere il carro davanti ai buoi, perché va benissimo, anzi, è cosa importante e benemerita, se quel determinato vino sia il risultato finale di uve provenienti da una viticoltura sostenibile e da pratiche di cantina poco invasive, a patto però che le sue caratteristiche organolettiche siano piacevoli, che non si confondano i brettanomyces con mal poste caratteristiche di territorio, con le quali non c’entrano nulla o che l’acidità volatile non copra i profumi più consoni alla tipologia, come purtroppo si sente e si vede fare da più parti.
Insomma, che non si spaccino degli evidenti difetti per chissà quali strane manifestazioni di una qualità “diversa” e migliore per non ben specificati motivi. Un atteggiamento che vede protagonisti talvolta anche parecchi sommelier di famosi locali che, ormai, se un vino non ha specifiche di una non ben chiara “naturalezza”, se non è frutto di fermentazioni con lieviti “indigeni”, se non presenta opalescenze nell’aspetto visivo, perché non è stato filtrato o perché ha subito una casse proteica, allora non sarebbe neanche da prendere in considerazione per entrare nelle loro liste.
E questo anche se i piatti che i vari chef propongono sono così delicati da mal sopportare l’abbinamento con un bianco “macerato” o con un rosso dai tannini gagliardi perché non “addomesticati” da una permanenza in legno, che li farebbe polimerizzare rendendoli più affrontabili. Considerazioni tecniche che non dovrebbero però essere sottovalutate da chi ha la responsabilità di proporre un accostamento tra vino e cibo che dovrebbe esaltare entrambi e non creare contrasti difficili da risolvere, che penalizzano uno e l’altro e che creano problemi anche al gusto del consumatore finale.
A me personalmente li creò un vero match dove un, peraltro ottimo, bianco del Carso, frutto di macerazioni sulle bucce, prese letteralmente a schiaffi un carpaccio di spigola delicatamente condito con olio, succo d’arancia e spezie leggere. Chiesi al mio amico chef “Ma perché ti fai rovinare quel piatto con un abbinamento così azzardato?” E lui mi rispose “Col mio sommelier non ci si ragiona più, non so proprio che fare.”
La coerenza enologica, tesa ad esaltare le migliori caratteristiche di un vino, che poi porta a note organolettiche piacevoli, determina meno problemi in abbinamento e rende i vini riconoscibili e collocabili con facilità all’interno della loro denominazione. Se intesa in senso corretto, evitando forzature ed esagerazioni tecnologiche, simili all’accanimento terapeutico in certi casi, è un elemento irrinunciabile e deve precedere qualunque altra considerazione. Il resto è un commento che dovrebbe venire dopo, e che fa parte del racconto che un produttore può fare per spiegare come è riuscito a fare un vino tanto interessante e così piacevolmente rappresentativo del suo territorio.
Il tutto per non svilire delle pratiche condivisibili, come quelle della vitienologia sostenibile, con un banale sotterfugio commerciale che non rende giustizia a nessuno e che fa solo tanta confusione.