Con una morte troppo prematura, ci ha lasciato il principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, esponente di una delle più antiche famiglie nobili italiane e figura di primo piano per la valorizzazione del patrimonio artistico e agricolo del Lazio.
Aveva solo 53 anni e aveva dedicato la sua attività alla tutela delle tradizioni e alla continuità di un’eredità culturale radicata nel territorio. Tra i suoi tanti meriti c’è la rinascita della Tenuta di Fiorano, storica proprietà di famiglia, che sotto la sua guida è tornata a produrre vini di grande livello, riportando l’azienda al centro della scena enologica nazionale e internazionale. Con rigore e visione, Alessandrojacopo aveva restituito identità e prestigio a un nome che aveva segnato la storia del vino laziale.
La sua scomparsa lascia un vuoto nel mondo del vino e della cultura del territorio. E ancor più lascia attoniti tutti noi di DoctorWine che lo abbiamo conosciuto bene e stimato tanto. Alla moglie Maria Carolina e alla famiglia vanno le nostre più sentite condoglianze.
I funerali si svolgeranno giovedì 4 dicembre alle ore 11 alla Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio a Roma.
Lo vogliamo ricordare con un racconto che Daniele Cernilli scrisse tanti anni fa, nel 2011, dedicato proprio al suo impegno nella rinascita della Tenuta di Fiorano.
Il ritorno del Fiorano
A chi ha meno di cinquant’anni il nome di Fiorano ricorda più la pista di collaudo delle Ferrari che i vini di una tenuta alle porte di Roma. Eppure quando Veronelli pubblicò il suo primo Catalogo Bolaffi dei Vini del Mondo, nel lontano 1968, le cantine laziali nominate erano solo due. Torre Ercolana ad Anagni, di proprietà del Maestro Luigi Colacicchi, e, appunto, Fiorano, del principe Alberico Boncompagni Ludovisi.
Quando dieci anni dopo lessi della cosa chiamai subito Elio Mariani, giovane proprietario del ristorante Checchino dal 1887 a Testaccio, davanti al vecchio mattatoio di Roma, e mio compagno di “zingarate” enologiche dell’epoca e gli chiesi che cosa ne sapesse di quel vino. “Mio padre Sergio ne aveva comprate delle bottiglie, ne devo avere ancora qualcuna in cantina, forse del 1958, vieni che la apriamo”. Una proposta irresistibile, anche perché comportava un invito a cena, cosa che in quel ristorante non mi sarei mai potuto permettere. Detto fatto mi precipitai la sera stessa ed aprimmo il Fiorano Rosso del 1958.
La grande sorpresa: Fiorano Rosso 1958
Sapevo che era un “taglio bordolese”, Cabernet Sauvignon in prevalenza ed un po’ di Merlot, ma non avevo idea di cosa mi aspettasse. Ricordo che il colore era piuttosto scuro e vivo per un vino di vent’anni, ma quello che mi colpì fu la complessità olfattiva. Sembrava un Pauillac, invece si produceva davanti all’aeroporto di Ciampino, sulla via Appia Antica. Sapore setoso, elegantissimo, austero. Una meraviglia. “Elio, dobbiamo andarci, magari riusciamo a comprarne una cassa” dissi subito.
La visita alla Tenuta di Fiorano
Il lunedì successivo, giorno di chiusura del ristorante, ci demmo appuntamento nei pressi dell’Alberone, sulla via Appia Nuova, e ci dirigemmo con la vecchia Citroen di Elio verso Fiorano. Nessuna insegna, solo una staccionata che si apriva e che permetteva l’ingresso su una strada sterrata.
Dopo pochi metri sulla destra ecco un signore con un falcetto ed un cappello di paglia a falde larghe che ci chiese cosa volessimo. “Cerchiamo gli uffici per comprare del vino” risposi, e lui ci dette indicazioni. Solo in seguito scoprimmo di avere parlato con il principe Boncompagni in persona.

L’acquisto del vino
Ci accolse la signora Giona, ci squadrò severamente, io avevo un eskimo, barba e capelli lunghi, Elio vestiva in modo più “civile” ma non certo elegante. “Sei bottiglie di Rosso, sei di Bianco e se ci sono sei di Sémillon, questo è il massimo che posso darvi” ci disse. “Il conto è di 10.740 lire, Ige compresa, e preparate i soldi precisi perché non ho da darvi il resto”.
Ci piantò in asso, chiudendo a chiave la porta dell’ufficio mentre andava a prendere i cartoni, in modo che noi non fossimo in grado di andarcene o di curiosare. Cercammo di mettere insieme i soldi, arrivammo a 10.750, le monetine da venti lire erano già allora una rarità. Per fortuna la cosa andò bene lo stesso “ma che sia l’ultima volta, però” ci disse con sguardo severo. Il Fiorano Rosso era del 1971, i bianchi del 1970, addirittura, uno proveniva da uve Sémillon, l’altro da Malvasia di Candia.
Lo scambio di battute con Veronelli
In seguito chiamai Veronelli: “Gino, sono andato a Fiorano ed ho comprato un po’ di bottiglie”, gli dissi.
“E quella virago te le ha vendute? Davvero? Sei stato fortunato”.
“Sì, ma dimmi qualcosa in più dei vini, che ci ho capito poco. Il Rosso è un taglio bordolese, ma gli altri?”.
“Il Bianco è molto buono e longevo, lo fa maturare in vecchie botti di castagno da mille litri, le classiche botti usate da sempre sui Castelli Romani, ma quello che è un vero fuoriclasse è il Sémillon, un vino pazzesco, uno dei migliori bianchi del mondo”.
“Ma dai, un Sémillon a Ciampino… Come può essere?”.
“Ricordati che i vitigni appartengono alla terra che li accoglie, ne rendono testimonianza, anche se arrivano da altri luoghi. Se quello di Fiorano è un grande terroir può benissimo essere rappresentato da un Cabernet o da un Sémillon, non ti formalizzare.”
L’incontro con Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi
Le parole di Gino (a proposito, sono quasi sette anni che se n’è andato) me le sono ricordate pochi giorni fa, quando Paolo e Francesco Trimani mi hanno convocato d’urgenza nel loro Wine Bar di via Goito. “C’è una persona che vorrebbe conoscerti”. La persona era Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, pronipote del principe Alberico, scomparso nel 2005, un giovane e brillante signore che ha ricominciato a produrre il Fiorano.
Ha tirato fuori le bottiglie da una sacca, con le etichette e le capsule che non vedevo più da trent’anni, e devo dire che ho avuto un tuffo al cuore. Il Fiorano Bianco 2010 si basa su altri vitigni, Grechetto e Viognier, il Rosso è esattamente come era. “Il mio prozio Alberico mi ha guidato nei primi passi e mi ha suggerito di fare i nuovi vigneti in questo modo. Le uve rosse derivano dalle vigne vecchie, le altre le ho piantate nel 2003 e, secondo lui, prima di sette anni il vino non avrei dovuto farlo. Tutto resta frutto di viticoltura naturale, solo poltiglia bordolese e letame, poi ci sono le arnie con le api per l’impollinazione. Come voleva lui e come avevano stabilito di fare, negli anni Trenta, con il suo consulente di allora, Tancredi Biondi Santi…”
La storia la conoscevo anch’io, ma risentirsela dire dal vivo è stato bello. Alla fine ecco i vini. Avevo un po’ di timore, pensavo che la delusione potesse essere dietro l’angolo. Invece… un grandissimo ritorno.



