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Società consumistica e vino difettato

Da dove deriva il fascino di vini difettati ma visti come autentici, rispetto a vini tecnicamente ben fatti ma considerati nemici della cultura contadina?

Durante un recente press tour ho notato da parte di giovani colleghi un’attenzione esagerata verso “storie” di produttori e apprezzamento di vini “antichi”. Vini con evidenti imperfezioni soprattutto olfattive, volatili elevate e sentori dovuti al brett esaltati in nome della naturalezza del vino, della tradizione, del non intervento dell’uomo, di pratiche agricole autentiche, del recupero di cloni antichi e via di questo passo.

Coerentemente altri produttori con cantine strutturate, tecnicamente evolute, con vini assolutamente piacevoli e privi di “impuntature” grammaticali venivano giudicati anonimi o additati come i nemici della “cultura contadina”. Cosa si può trovare di affascinante in una cultura che nel passato dava fame, poche prospettive, vini approssimativi e raramente buoni? Perché tecnica, scienza, conoscenza vengono viste con sospetto, come distruttrici di sapienze antiche più sane? Perché siamo ricaduti nel gorgo della contrapposizione scienza–fede?

Ritengo che alla base ci sia un malessere generazionale dovuto alla mancanza di certezze personali, di sicurezza lavorativa, di elementi “valoriali” unificanti. La distruzione dei valori sociali del passato (criticabili alcuni, migliorabili altri) non sostituiti da altri altrettanto condivisi ha portato alla “vittoria” di una società basata sul consumismo e sulla cultura dell’affermazione personale “ad ogni costo” che si manifesta per lo più tramite l’appartenenza a un gruppo di consumatori che si riconosce – e vuole farsi riconoscere – per quello che ha, più che per quello che pensa o per dei valori morali e sociali condivisi.

Su questo si innesta una forte contrazione del potere d’acquisto e dell’accesso al lavoro dei giovani che li pone in una condizione psicologica difficile e di inadeguatezza. Inoltre i più sensibili vengono attratti da gruppi che si prefiggono risultati altissimi ma poco concreti e soprattutto irraggiungibili, creando una forte appartenenza al gruppo, spesso acritica, quasi fideistica, che li fa sentire utili ma in realtà ne frena le pulsioni verso il miglioramento di sé stessi.

Insieme al sistema valoriale è stato inoltre attaccato negli anni, e purtroppo anche nella scuola, la cultura della “memoria e identità” come brillantemente esposto in un libro da Giovanni Paolo II. Questo allarme fu ignorato da molti vedendolo solo come un tentativo di opporsi alla globalizzazione in atto, in realtà era un allarme contro la “globalizzazione del pensiero” che proveniva da un ambiente largamente ecumenico. Di fronte a questo futuro nebuloso, alle grandi insicurezze del tempo, alle difficoltà è piuttosto ovvio che si cerchi un rifugio che permetta di sfuggire alla malinconia, e il rifugio può essere nel passato e nella cultura contadina che sembra immobile, così ancorata ai cicli naturali, così rigida nei suoi principi di causa effetto e dove tutto pare ordinato, immutabile e con chiari valori.

Nei vini questo si riversa di conseguenza ed ecco il voltare le spalle alla scienza che – secondo pochi spero – sarebbe entrata a gamba tesa, con i suoi protocolli, la massificazione delle produzioni, l’omologazione dei prodotti, tutto ciò che per i “semplici” sconvolgeva il naturale equilibrio.

È facile puntare il dito e dare le colpe alla scienza, per capirla bisogna studiarla e il suo linguaggio è difficile; mancano bravi comunicatori (ci vorrebbe un nuovo Piero Angela o il figlio Alberto) che facciano capire che le maggiori conoscenze non possono essere un freno al movimento vitivinicolo, ma un ponte verso l’esaltazione del nostro patrimonio enologico con nuovi standard. Ma è più facile seguire fedi e dogmi in maniera acritica che affrontare le proprie paure attraverso percorsi complessi e impegnativi sia a livello intellettuale che psicologico.

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