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Badrutt’s Palace. Intervista alla head sommelier Cristina Iuculano

La giovane sommelier italiana è alla guida dell’incredibile cantina del 5 stelle di St.Moritz: 30mila bottiglie per oltre 1.800 etichette per 11 ristoranti, 2 bar e un Club.

Classe 1990, cresciuta a Milazzo in una famiglia internazionale, con madre tedesca, padre siciliano e nonno francese; diplomata in agraria ed enologia tra la Sicilia e San Michele all’Adige, ha viaggiato molto per lavoro e oggi risiede in Valtellina, dove coltiva una piccola vigna. Cristina Iuculano è un mix di culture e storie racchiuse in una donna minuta, ma traboccante entusiasmo e determinazione. Da luglio 2022 è stata scelta come nuova head sommelier dell’hotel Badrutt’s Palace di St. Moritz, prendendo il posto del precedente sommelier, Daniel Kiss, rimasto quasi sette anni in carica. Un ruolo di prestigio che ricopre con l’orgoglio di essere anche la prima donna sommelier a mettere piede al Palace. 

Cristina, come sei approdata al Badrutt’s Palace?
«Sono arrivata qui a giugno, il 15, per l’esattezza. Mi ricordo che quando passavo per St. Moritz guardavo sempre il Badrutt’s con occhi innamorati, pensando che, prima o poi, mi sarebbe piaciuto lavorarci. Poi, un giorno, mi appare un annuncio su Linkedin: cercavano un head sommelier. Mi era apparso esattamente 4 minuti dopo che era stato pubblicato, condiviso da un mio collegamento. Io non credo nella fortuna, ma credo, come disse il caro vecchio Socrate, nell’abilità di cogliere le occasioni. Quindi mi sono detta: o la va o la spacca e ho inviato la mia candidatura. Dopo appena 4 giorni sono stata contattata dal capo del personale e ho sostenuto il primo di quattro colloqui con il responsabile del Food&Beverage dell’albergo, Gian Müller, durato ben tre ore. A lui sono infinitamente grata per avermi dato la possibilità di lavorare qui. Perché, in Svizzera, le donne sommelier continuano a essere ancora molto poche; tra l’altro, io sono la prima sommelier donna in assoluto a mettere piede al Palace».

Come stai affrontando questa nuova avventura in una realtà così prestigiosa e con una cantina tanto imponente?
«In cantina abbiamo uno stock di almeno 30mila bottiglie per oltre 1.800 etichette, che ci posizionano tra le prime enoteche al mondo. A spaventarmi, però, non è tanto il numero di referenze, quanto l’organizzazione. Abbiamo 11 ristoranti, 2 bar e un Club che dipendono unicamente da me per il vino; perciò, è fondamentale gestire la cantina con grande ordine, e in questo sono assistita da quattro cantinieri che conoscono tutti i codici e le posizioni dei vini. Un altro aspetto complesso di questo posto è che possono esserci più eventi contemporaneamente in outlet diversi, perciò occorre grande coordinazione». 

Come si svolge il tuo lavoro e quanto margine di intervento ti è stato dato sulla carta?
«Per quanto riguarda le scelte di cantina, io rispondo direttamente al signor Müller e alla direzione. Da parte loro c’è massima disponibilità ad ascoltare le mie idee e proposte: in linea di massima posso fare quello che desidero, purché le mie idee siano giustificate e supportate non solo da teorie, ma da fatti, quindi ogni cambiamento viene affrontato con molta calma e a piccoli passi. Per quanto riguarda i miei compiti, inevitabilmente qui passo molto più tempo al computer e a fare i conti: bisogna tenere in ordine l’archivio, fare gli ordini, il wine cost e i wine pairing. Ovviamente poi c’è da fare il giro di tutte le sale negli orari di servizio, compito nel quale sono affiancata da uno staff esperto e da un mio secondo, Lucio Pacchiano, di cui ho grandissima stima».

Da dove arrivi e quali sono state le tappe più significative del tuo percorso professionale?
«Ho studiato agraria all’istituto professionale di Milazzo, poi ho seguito dei corsi di specializzazione in enologia a San Michele all’Adige. A 18 anni mi sono quindi trasferita dalla Sicilia per andare a vivere in Alto Adige, che è rimasta per anni la mia base di residenza invernale, mentre in estate mi spostavo per lavoro. Ho iniziato subito a lavorare in sala, in diversi ristoranti anche stellati del nord Europa. Poi, nel 2021, sono stata chiamata a curare l’apertura del Manna Resort di Maria Luisa Manna e Franz Haas, dove sono rimasta per due anni. Lì mi sono occupata della carta dei vini e ho formato anche la persona che oggi ha preso il mio posto».

Come è nata la tua passione per il vino?
«Sono cresciuta, come tanti nel Sud Italia, in un contesto agricolo, in mezzo ai vigneti e alle feste per la vendemmia. Avevamo anche noi dei terreni vitati a Milazzo, che gestiva mio nonno. È grazie a lui che mi sono appassionata al vino. Aveva origini francesi e, sebbene non fosse un grande winemaker – tutt’altro! –, era però un grande appassionato e collezionista: penso di essere stata una delle più giovani ad aver bevuto un La Tache della Romanée-Conti a vent’anni, senza neanche sapere cosa fosse! Lui ha sempre cercato di indirizzarmi verso questo mondo, tant’è che, di quattro figli, io alla fine sono stata l’unica a scegliere il vino. Nel momento in cui è venuto a mancare, avevo 16 anni, ho ereditato gran parte della sua cantina e il piccolo appezzamento che aveva acquistato in Valtellina come investimento con un suo amico, che oggi gestisco io».

Quindi sei anche una vignaiola?
«Diciamo di sì! Ho questo appezzamento molto piccolo vicino Sondrio, parliamo di 450 m2, che coltivo io. Per anni ho venduto le uve ad aziende più grandi, come Arpepe e Negri, ma ho anche prodotto una piccola partita di vino appoggiandomi nella cantina di un altro ragazzo valtellinese, Dario Stazzonelli. Essendo cresciuta in campagna apprezzo molto l’aspetto agronomico della gestione di un vigneto, tant’è che al momento ho messo temporaneamente in stand-by il WSET per seguire il corso di potatura della vite di Simonit & Sirch, perché un domani mi piacerebbe poter avere un’azienda tutta mia».

Qual è secondo te la marcia in più che ti differenzia da tanti tuoi colleghi sommelier, magari con anche più anni di esperienza lavorativa?
«Quello che premia nella mia professione è il fatto che, nonostante la mia età, io sia riuscita ad assaggiare tanti vini importanti. Questo, innanzitutto, perché ho potuto avere accesso molto presto a una cantina di grandi etichette francesi grazie a mio nonno. Poi, però, venendo da una famiglia normale, per continuare a coltivare questa passione, ho iniziato a lavorare presto nella ristorazione e a mettere i soldi da parte per poterli investire in vino. A 21 anni sono partita alla volta della Borgogna, dove ho potuto anche acquistare le mie prime tre Vosne Romanée-Conti, che all’epoca pagai 890 euro l’una. Una l’ho assaggiata e le altre le ho rivendute: questo è stato lo schema che ho seguito per dieci anni. Scambi e compravendite con privati per avere margine da reinvestire in vino, oltre a un format di degustazioni private in cui coinvolgevano amici e appassionati, al fine di condividere bevute eccezionali. L’obiettivo non è mai stato lucrarci, ma poter rientrare delle spese per acquistare nuove referenze». 

L’aspetto che ti diverte di più del tuo lavoro?
«Mi è sempre piaciuto molto fare abbinamenti strani, che sorprendessero in qualche modo i commensali. Anche nell’ultimo locale dove lavoravo, il Manna, era incredibile come riuscissi a vendere più abbinamenti che bottiglie! Forse questo è l’aspetto che più mi manca al momento, potermi dedicare a tempo pieno all’abbinamento cibo-vino».

Il pairing più curioso che hai fatto?
«Al Manna avevamo in carta questo fungo cardoncello servito per metà intero e per l’altra in una composizione che sembravano degli spaghetti, con passion fruit e tartufo. Quando mi hanno chiesto cosa abbinarci non ho avuto dubbi: un Assyrtiko greco! Mi hanno dato della pazza, però ha funzionato».

Quali sono, invece, gli aspetti meno piacevoli del tuo lavoro?
«Uno degli incubi di ogni sommelier è vedere una grande bottiglia andare delle mani di qualcuno che non sia in grado di apprezzarla e che la compra solo perché ne ha la possibilità. Ogni tanto mi piange il cuore, ma negli anni ho imparato a vederla da un altro punto di vista: almeno ho anche io l’occasione di assaggiarla! Un altro aspetto del mio lavoro in cui sono molto maturata è quello di tenere a bada la mia parte passionale e dare risposte pragmatiche e diplomatiche a clienti che mi trattano con sufficienza o che cercano di mettermi a disagio. Mi sono capitati anche brutti esempi di maschilismo, di clienti uomini che non mi riconoscessero nel mio ruolo professionale. Oggi il mio comportamento di fronte a certe situazioni è rimanere distaccata e dileguarmi con educata freddezza il prima possibile. Non serve a niente scomporsi e perdere tempo a dimostrare la propria abilità a certe persone, perché se stai lì, soprattutto in un posto dove non ti prendono se non hai veramente un background valido, è perché ne hai le competenze».

Cosa ti aspetti da questa esperienza al Badrutt’s?
«Mi aspetto tanto. Questo è un posto dove puoi crescere molto a livello sia professionale che emotivo; dove, più che altrove, hai la possibilità di avere a che fare con tante persone diverse, di tante nazionalità: a Saint Moritz veramente arriva il mondo e non a caso è detta “top of the World”. E non parlo solo di clientela: anche il rapporto con il resto dello staff è un’occasione per entrare in relazione con persone di ogni età e provenienza.
Nella mia vita sono sempre voluta andare a crescere e diciamo che, se questo albergo rientra tra i migliori 50 al mondo, le occasioni per farlo di certo non mancheranno! Inoltre, credo di essere arrivata proprio nel momento migliore: abbiamo un Managing Director, Richard Leuenberger, che guida veramente questa nave nel modo più eccellente che si possa fare; abbiamo il direttore del food&beverage, il Gian Müller che mi ha arruolato, che è il suo braccio destro ed è veramente una persona di un’umiltà e di un’intelligenza emotiva incredibile. Penso sia proprio questa la parte magica del Badrutt’s: il fatto di trovarsi in un 5 stelle incredibile, dove tutto è possibile, ma senza il classico ambiente rigido del luxury. Ovunque trovi grande empatia e professionalità, che è poi ciò che lo contraddistingue».

E dal punto di vista di vini cosa ti aspetti di stappare?
«Quando sono arrivata, ho fatto uno studio approfondito di quelli che erano i self report degli anni passati e sono rimasta scioccata per quello che si riesce a vendere qui dentro! In cantina abbiamo delle bottiglie e delle verticali di Romanée-Conti che si possono trovare, forse, a Firenze all’Enoteca Pinchiorri. La Svizzera poi è un contesto magico per questo lavoro: io mi rapporto con 35 diversi rappresentanti di vino, di cui so con precisione chi può darmi i prodotti che desidero. Qui si riesce a comprare e a vendere di tutto: solo ieri sera abbiamo venduto, al bar dell’albergo, un Vosne Romanée-Conti del 1997 a 8.000 franchi (circa 8.500 euro) e, contemporaneamente, un La Tache del 2009 al ristorante!». 

L’etichetta più preziosa che hai in cantina in questo momento?
«Una Romanée-Conti Monopole del 2009, in carta a 38.500 franchi svizzeri, circa 40.700 euro»

Pensi che riuscirai a venderla?
«Non ho dubbi!»

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