Nonostante tutti ormai parlino, giustamente, di territori, molti critici dimenticano, quando valutano un vino, che lo stesso vitigno cambia molto in base al territorio dove viene prodotto e occorre quindi cambiare i parametri di valutazione.
Si parla tanto di territorio di zone, di sottozone, di vigne e altri concetti del genere ma poi si leggono tanti articoli e giudizi che riguardano il vitigno o, ancora peggio, la personale interpretazione di quel vitigno, che viene trasposta in ogni territorio in una modalità autoreferenziale che rasenta il ridicolo.
La regione che più soffre di questo è la Toscana dove il Sangiovese insiste con percentuali bulgare su tantissime Docg. Ben più saggi furono i nostri avi che davano al Sangiovese nomi locali (Prugnolo gentile a Montepulciano, Brunello a Montalcino, Morellino a Scansano sono i casi più classici) che evitavano la confusione. All’epoca si parlava di Sangiovese solo riferendosi alla Romagna e non ad altro.
Anticamente la cultura toscana era di uvaggio, prova ne sia il Chianti, ma anche a Montalcino solo dopo Biondi Santi si intraprese la via del monovitigno Brunello-Sangiovese. Nei decenni passati abbiamo assistito all’introduzione nella cultura del blend dei vari Cabernet, Merlot, Syrah, stravolgendo la tradizione ma aumentando l’appetibilità del vino sui mercati esteri. Si è imposto il fenomeno dei Supertuscan che vedeva anche dei Sangiovese in purezza da zone extra Brunello (geniale intuizione). Tutte idee eccellenti, sicuramente vincenti, che però ammiccavano al mercato più che al territorio.
Negli ultimi tempi modifiche ai vari disciplinari hanno aumentato la possibilità di usare Sangiovese in purezza, facendo dilagare il problema dell’identità territoriale mal gestito, occorre dirlo, da una parte di critica ahimé soprattutto autoctona. Non si può, e non si dovrebbe piegare i territori alla propria visione di Sangiovese secondo una logica del “a me il Sangiovese piace così e ne consegue che tutti quelli che si avvicinano al mio modello vanno bene e gli altri no” perché è una visione autoreferenziale e pericolosa per i produttori e soprattutto per i nostri magnifici territori.
Dobbiamo ringraziare che questo vitigno “sente” molto le differenze territoriali. Ritengo che un giusto approccio sia quello dell’esaltazione delle differenze strutturali nel vino che dipendono dal territorio. Ricordiamole le differenze classiche (forse semplici) sempre esistite: l’acidità e l’eleganza del Chianti Classico, il tannino e l’austerità del Nobile di Montepulciano, la fittezza e la potenza del Brunello di Montalcino, il calore e la solarità del Morellino di Scansano. Queste semplici differenze devono rimanere immutabili per ben caratterizzare come hanno sempre fatto questi territori. E se qualche vino – magari buonissimo – si avvicina pericolosamente al “confine” della denominazione per sforare in un’altra, perdendo le caratteristiche intrinseche della zona non può essere considerato un riferimento e nemmeno un degno rappresentante di quella zona. Se non dividiamo rigorosamente dei semplici confini degustativi tra le denominazioni uccidiamo i territori e non facciamo buona informazione perché creiamo confusione nei consumatori che sono il bene più prezioso che il nostro mondo possiede.