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Mixology: Arte Liquida?

Mixology, handshake speakeasy Città del Messico

Abbiamo chiesto al barman romano Simone Mina di scrivere un articolo che in qualche modo si riferisse a un fenomeno tanto in crescita come quello della mixology, il mondo della miscelazione. Il risultato ci ha sorpreso molto piacevolmente.

Accogliendo l’invito del caro DoctorWine Daniele Cernilli a scrivere sul mondo del bar e della miscelazione, è subentrata abbastanza rapidamente nella mia testa una domanda: cosa scrivere? 

Già mettersi nella posizione di scrivere un articolo su un tema presuppone che lo stesso meriti una riflessione e che l’opinione di chi lo scrive sia in un certo qual modo piuttosto significativa. Comunque voglio considerare questi miei scritti dei brevi pensieri, degli spunti di riflessione, delle “chiacchiere da bar”. 

Da cosa iniziare? Per evitare pedanti elucubrazioni tecniche sul mondo dei cocktail (un male che ahimè oggi affligge tanto il bar quanto la cucina) ho pensato di iniziare da un argomento tangente al bar, prendendo spunto da un passato editoriale di Cernilli

L’editoriale in questione iniziava con una domanda: “Gli chef sono artisti”? 

È una domanda che spesso ci si fa tanto in cucina quanto al bar (anche perché i due ambienti sono perfettamente complementari) ed è una domanda che anch’io, da ex studente di storia dell’arte, mi sono fatto molte volte. 

Ecco la risposta che mi sono dato 

Simone Mina Ch1887Sono convinto che il lavoro di un barman, di un cuoco o più in generale di un professionista del mondo della ristorazione sia al 50% fatto di numeri e al 50% fatto di poesia. 

Personalmente credo che un’interpretazione artistica di questi lavori sia possibile, il punto però – a mio avviso – è dove andare a ricercare questa presunta artisticità

Non credo si debba ricercare questo aspetto artistico con un approccio squisitamente visivo (errore che al giorno d’oggi ha portato alla creazione di veri e propri mostri) ma da un punto di vista più organico. Mi spiego. 

Relazionarsi a un drink o a un piatto come lo si fa con un quadro o con una scultura o con un’istallazione ha in sé un errore di partenza: considera uguali i metodi di fruizione dell’opera, cosa che invece è assolutamente differente. 

Come la “polibibita” dei futuristi

Se è vero quello che sostenevano i Futuristi, che un drink, (nel loro caso una “Polibibita”) è come un’opera d’arte che si esaurisce nell’arco di tempo di un bicchiere, è altrettanto vero che la sua artisticità non risiede tanto nella foggia del bicchiere, nella sua decorazione o nel metodo di servizio (o meglio non solo), ma risiede in massima parte nella sostanza contenuta al suo interno che ingerita dal fruitore, reagisce con il suo corpo, stimolandolo verso determinate sensazioni. 

In questo senso un drink può essere considerato arte, abbandonandone la mera analisi estetica e considerando, invece, altri fattori. Nel riferirmi all’emozionalità della cosa, mi riferisco appunto all’effetto che crea in me. Nel guardare un’opera d’arte, questa stimola in me delle emozioni, delle reazioni a vari livelli (perché l’arte si sa, ha vari livelli di lettura, è per sua stessa natura ambigua). 

Allo stesso modo un drink (e il barman che lo crea) potrà trasmettermi delle emozioni (a vari livelli). Emozioni che poi andranno ad influire sull’aspetto della fruizione della convivialità del luogo in cui lo bevo. 

Un legame indissolubile con il luogo

In questo senso un cocktail (intendendo con questa parola il binomio cocktail + bar) essendo legato indissolubilmente al luogo in cui viene fruito (luogo in cui quasi per definizione le persone si incontrano) può essere considerato un’opera d’arte che coniuga in sé vari aspetti di vari modi di fare arte: l’arte figurativa, l’istallazione, la performance, la musica. 

Questi sono tutti aspetti che “lavorano” insieme a quella che è l’esperienza finale del fruitore. Un fruitore che per giunta è immerso in un pubblico che interagisce con lui influenzato dagli stessi aspetti della cosa, in maniera uguale ma su diversi livelli con diversi o uguali esiti finali. 

Concludendo, direi che sì, un drink (o un piatto) possono essere considerati arte se si considerano tutti questi fattori e se in ultima analisi non ci si distacca dalla loro natura intrinseca, cioè tenendo presente che non sono quadri: un quadro non lo mangio, non lo bevo! 

Questa, sommariamente, è l’idea che mi sono fatto della questione e la risposta che mi sono dato, in ultima analisi, è la mia “idea” di Bar. 

Sarà proprio Simone Mina a curare la sezione dedicata ai cocktail a base di vino presentati all’interno della nostra pubblicazione Vini per l’estate 2025.

Che ne pensi di questo articolo?