La strada che conduce alla ristorazione stellata è lastricata di delizie, sorprese, cocenti delusioni.
Se volete accedere all’esclusivo mondo del “divino ristoratore” non commettete mai l’errore di presentarvi inattesi. È una situazione imbarazzante. Suonate alla porta, un cameriere ossequioso vi apre e vi chiede se avete prenotato. Voi allungate l’occhio oltre le sue spalle, non contate più di sei persone sedute ai tavoli e, candidamente, confessate di non aver provveduto.
È finita: non entrate e non entrerete mai. Ed a nulla varranno le vostre proteste, l’infamante asserzione che tanto il locale è vuoto: prenotare è la regola divina. Ed è inutile anche far lavorare la fantasia, nemmeno vi venisse in mente, pur di accaparrarvi un posto inesorabilmente vuoto, di spacciarvi per un collaboratore della guida del Gambero Rosso, un redattore della Guida dell’Espresso o un ispettore della Guida Michelin: lo hanno già fatto, prima di voi, i sei che avete intravisto seduti alle spalle del cameriere.
Prenotate telefonicamente, quindi, ma evitate di presentarvi con cognomi banali, come Bianchi o Rossi, perché potrebbero scambiarvi per uno di quei terribili recensori, indefessi fustigatori di ristoratori di ogni rango, blogger cui è stato negato l’ingiusto compenso, e prepararvi una “opportuna” accoglienza.
Finalmente in sala
Superata quest’ultima barriera potrete finalmente accedere alle sale del “divino ristoratore” e scoprirete che ne valeva la pena. Nulla è lasciato al caso: mobili, suppellettili, tovaglie, argenti, ceramiche e cristalli sono scelti con gusto ed estrema raffinatezza, sempre lindi, lucidi e lucenti.
Le facce stesse dei camerieri, le movenze, le voci, sembrano scelte dopo una lunga elaborazione del copione che devono recitare, anche se, come accade nelle grandi compagnie teatrali, il divario tra il prim’attore e le comparse è spesso abissale.
Vi sedete ammirati e subito vi porgono un calice di champagne/spumante come benvenuto insieme al menù, un vero e proprio capolavoro dell’arte grafica, carta a mano, illustrazioni commissionate a grandi artisti, dimensioni talvolta superiori a quelle dal tavolo cui siete seduti. Qualunque intenzione abbiate, compresa quella di mettervi completamente in balia del vostro ospite, non tralasciate di leggere ogni riga della carta delle vivande, perché vi riserverà molte sorprese. La prima riguarda la natura delle materie prime.
Benché quasi tutti questi “divini” professino la filosofia della “cucina del mercato” e del “km zero”, vi verrà immediatamente da chiedervi che diavolo di mercato frequentino. Infatti non vi si trovano né polli né galline ma soltanto galletti e pollanche, niente anatre ma solo anatroccoli, non trote ma trotelle.
E la vocazione al lilliputziano contagia anche la cucina, dove dai bei tortelloni di un tempo siamo passati ai raviolini, dalla noce di vitello alle nocette, dai risotti ai risottini.
Al gran ballo di alias, sinonimi e contrari
Al di là delle materie prime e degli ingredienti base, la grande rivoluzione può essere avvertita nella grammatica, nella sintassi e nel lessico.
Lo spezzatino è diventato una “dadolata“, il tartufo nero è “profumo di Norcia“, il gelato misto è “tavolozza di gelato“, l’unione di due ingredienti diventa “poesia” (poesia di salmone e capesante, poesia di petti d’anatroccolo e cuori di sedano, poesia di cotiche e fagioli), ma se sono disposti nel piatto in sequenza geometrica diventa “scacchiera” (scacchiera di fegato d’oca e tartufo, scacchiera di fave e pecorino).
Se gli elementi sono più di due e permettono maggiori possibilità di espressione figurativa si passa immediatamente al “mosaico” (mosaico di verdure al vapore, mosaico di frutti di mare al salmoriglio, mosaico di pomodoro, mozzarella e basilico alla caprese), mentre quando le affinità non sono estetiche ma solo ideali si sconfina nel gergo musicale scomodando il “concerto” (concerto di verdure di stagione in pinzimonio) e perfino la “sinfonia” (sinfonia di dolci e piccola pasticceria).
I grandi sprechi lessicali della cucina
L’avventore dall’anima parsimoniosa noterà i grandi sprechi della cucina “divina”. Del filetto si mangia solo il cuore, dei pesci solo il filetto, dei gamberi solo le code, delle anatre solo il fegato, talvolta il petto, altre volte ancora né l’uno né l’altro ma solo i rognoncini, del tonno solo gli “anelli”, dei funghi solo le cappelle, del maiale solo il lombo, del carciofo solo il cuore, come il filetto.
Lattuga, indivia e spinaci sono stati ridotti ad elementi di decoro e servono solo per non fare toccare alle vivande la squallida porcellana su cui vengono servite (…su fondo di lattuga alla malvasia bianca, …su letto di spinaci al burro di Normandia, …su cespuglio di indivia ai vapori di aceto balsamico)
Chi non si destreggia bene coi nuovi linguaggi finisce per rifugiarsi nel “menù degustazione“, una comoda invenzione che permette di avere un’idea generale dell’arte del “divino” ad un prezzo forfettario, di solito inferiore a quanto costerebbe un accesso diretto e autonomo alle proposte della carta. In un modo o nell’altro, comunque, finalmente si mangia.
Liberamente tratto da “RuvidaMente.com”, per gentile concessione dell’autore Stefano Milioni: https://www.milioni.com/controcucina/il-divino-ristoratore/
1 commento
Bellissimo e divertente!