Gourmet

Miserie e nobiltà della pasta: parte terza

Pasta, banchetto romano

Continua l’excursus di Stefano Milioni sulla pasta. Si passa attraverso la letteratura per scoprire le differenze tra pasta secca e pasta fresca.

Come abbiamo visto nelle scorse puntate, la pasta è un prodotto povero, umile, inventato per preservare il prodotto base dell’alimentazione da un facile deperimento, e per garantirsi una riserva di cibo nell’eventualità che potesse saltare la distribuzione successiva di grano, a causa di una carestia, di una burrasca che aveva impedito alle navi di raggiugere il porto di Roma o di una infestazione più grave delle altre nei depositi di grano.

La pasta, quindi è nata di fatto nella Roma Imperiale e non poteva nascere che in un luogo in cui, contemporaneamente, si verificassero le seguenti tre condizioni: 

  1. Una città di oltre un milione di abitanti che dipendeva da approvvigionamenti esterni, senza alcuna integrazione con l’agricoltura del territorio circostante; 
  2. Il susseguirsi periodico di carestie che tenevano vivo nella gente lo spettro della fame
  3. La difficoltà di conservare oltre un certo periodo i cereali, a causa della loro deperibilità, fenomeno che mentre era grave a livello di approvvigionamento collettivo, diventava drammatico a livello di singole famiglie per le quali, venendo a mancare le distribuzioni mensili di grano, non sapevano dove andarsi a procurare altro cibo. 

Proprio grazie a questa misera origine della pasta dobbiamo il fatto che nella letteratura del tempo se ne parli molto poco. 

Un vuoto nella letteratura

Orazio, Satire
Orazio, Satire

Non se ne parla perché fino all’Ottocento, quando si è scritto di gastronomia lo si è fatto prevalentemente parlando dei potenti e dei ricchi, che, certamente, anche nella Roma Imperiale non si cibavano di pasta. 

Oppure esaltando (come ancora oggi) il sogno della vita agreste in cui i prodotti rustici e semplici sono i protagonisti della tavola di tutti i giorni. 

Ma la pasta non ha alcuna relazione con la vita dei contadini, è un prodotto per sopravvivere in una grande città e questo non è un argomento accattivante per un poeta. 

A meno che non si tratti di un poeta controcorrente come Orazio, cui piaceva ostentare atteggiamenti in contrasto con la vita condotta dai potenti in mezzo ai quali viveva. 

Nella sesta Satira del primo Libro, a dimostrazione di una vita sana e serena scrive “…quindi (la sera) ritorno a casa ad una scodella di porri ceci e lagane”. Ebbene, quelle “lagane”, nome ancora oggi utilizzato in molte regioni meridionali, non sono altro che le nostre lasagne. 

Dopo Orazio, ne parlerà anche Apicio nel suo De re Coquinaria, indicandole come ingrediente di molti piatti, non curandosi mai di spiegare come debbono essere fatte, e questo dimostra quanto dovessero essere comuni in quel tempo tra i Romani, visto che per ogni altro elemento viene sempre fornita una accurata spiegazione. 

Le lasagne di Orazio vs quelle di Apicio

Apicio, De re coquinaria
Apicio, De re coquinaria

Se si analizzano bene i due testi, però, scopriremo che c’è una differenza tra le lasagne di Orazio e quelle di Apicio. 

Le prime sono un cibo povero, buttato in pentola per preparare un cibo frugale, semplice. Le seconde sono l’ingrediente di un piatto raffinato, elaborato, che richiede una lunga preparazione e la mano abile di un cuoco. 

Le prime sono lasagne di pasta secca, le seconde di pasta fresca. 

Pasta fresca

Pasta all'uovo
Pasta all’uovo

E nei secoli successivi, se nella letteratura e nelle testimonianze storiche avremo testimonianza di “pasta”, si tratterà sempre di pasta fresca, preparata nelle cucine dei re e dei potenti, arricchita nell’impasto con uova, ridotta a strisce, a quadri, arrotolata e farcita con impasti preziosi di carni, pesci e verdure: agnolotti, tortellini, ravioli. 

E che la pasta fresca fosse cibo dei ricchi e dei potenti prima ancora che a Roma si verificassero le condizioni per l’invenzione della pasta secca, è testimoniato dalla più antica testimonianza della pasta in Italia, nella tomba dei rilievi di Cerveteri (la tomba di un uomo potente, quindi) in cui sono riprodotti in stucco, sui due pilastri centrali, gli strumenti per lavorare la pasta a mano: la tavola spianatoia, il mattarello, il sacchetto per spolverare la farina sulla tavola, il mestolino per l’acqua, il coltello per tagliare la sfoglia e la rotella per dare un bodo ondulato alla pasta. 

Tomba con rilievi su colonna a Cerveteri
Tomba con rilievi su colonna a Cerveteri


Pasta secca

Per quanto riguarda la pasta secca, le testimonianze sono scarse o nulle per circa un millennio, e si tratta sempre di lasagne o formati simili. Solo dopo l’anno 1000 si hanno le prime testimonianze di altri formati di pasta, in particolare i “vermicelli” (tria) che, di sicura provenienza araba, venivano prodotti in Sicilia e che venivano esportati nel resto d’Italia. 

Ed i famosi “maccheroni“, almeno agli inizi non sono un ben definito formato: con quella parola si identificavano forme diverse di pasta, tipo gnocchi o palline schiacciate con le dita o con appositi strumenti, tutte realizzate con la stessa tecnica, quella di schiacciare. 

L’invenzione di nuovi formati si fa più vivace dopo il 1300, ma siamo sempre in un ambito ristretto, confinato ad usanze locali e non il segnale di una evoluzione verso una produzione industriale: la pasta è ancora un prodotto alimentare di riserva, una garanzia per il futuro, consumata periodicamente non come abitudine alimentare primaria, ma per la necessità di rinnovare le scorte. 

Liberamente tratto da “RuvidaMente.com”, per gentile concessione dell’autore. 

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